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Giuseppe Bonaparte re di Napoli

di Franco Celentano

 

A febbraio del 1806, cinquantamila francesi, guidati dal maresciallo Massena, invasero il regno di Napoli ed occuparono la città indifesa nella quale era rimasta una reggenza in pratica senza poteri che non riusciva a controllare una plebaglia avida di rapine.

Queste truppe conducevano a Napoli Giuseppe Bonaparte, che ne doveva assumere il comando come luogotenente del fratello, l'imperatore Napoleone.

La città non oppose alcuna resistenza e la reggenza, in cambio della clemenza dei conquistatori, garantì la resa delle fortezze di Gaeta, Capua, Pescara e Civitella che, obbedendo agli ordini del legittimo sovrano, resistevano gagliardamente.

Civitella, comandata dal colonnello Wood, ricusò di obbedire e resistette per tre mesi all’assedio cui fu sottoposta e si arrese solo per mancanza di vettovaglie, Gaeta si apprestò alle difese ed il principe di Philipstadt, che comandava la piazza, rispose alla reggenza che disobbediva all’ordine ricevuto perché tale ordine contravveniva ordini superiori e mortificava il suo onore.

Le prime schiere francesi occuparono la città il 14 febbraio, ma l'ingresso trionfale preparato per i militari fu compromesso da una pioggia torrenziale

Giuseppe Bonaparte entrò nel palazzo reale il 15 dello stesso febbraio, accolto con la riverenza dovuta al fratello e luogotenente di un monarca tanto potente.

Prima cura del principe fu inseguire l'esercito borbonico che si ritirava per le Calabrie ed  occupare le isole di Capri, Procida ed Ischia, molti castelli, e tutte le fortezze.

In Calabria, diecimila Francesi, comandati dal generale Regnier, dopo aver sbaragliato a Campestrino e Lagonegro poche schiere guidate dal colonnello Sciarpa, si scontrarono, a Campotanese con quattordicimila napoletani, obbedienti al generale Damas ed ai principi reali Francesco e Leopoldo.

Lo scontro avvenne in una posizione strategicamente svantaggiosa per l’esercito borbonico, che fu duramente sconfitto.

I francesi si ritrovarono padroni delle Calabrie con la sola eccezione di Maratea, Amantea e Scifia, forti di mura e di armi.

Giuseppe, intanto, provvedeva ad organizzare un governo e a dissipare sospetti.

Promise che sarebbero state rispettate le antiche leggi e che i pubblici ufficiali avrebbero mantenuto i loro incarichi e risvegliò speranze ed ambizioni quando inserì nel nuovo esecutivo, di sei membri, ben quattro napoletani.

Dei quattro napoletani, tre erano nobili: Pignatelli, il principe di Bisignano e il duca di Cassano mentre il quarto, Michelangiolo Cianciulli era magistrato.

Ai francesi furono concessi il ministero della guerra, che fu assegnato a Miot e quello della polizia, che fu affidato al giacobino Saliceti che badò a rassicurare i vecchi repubblicani che mugugnavano per le scelte abbastanza conservatrici.

Molta perplessità suscitò la legge che dava facoltà al ministro di polizia di arrestare e ritenere nelle prigioni, per prudenza di alta polizia, le persone accusate di delitti di Stato, ma coloro che videro in questa legge un’offesa alla giustizia furono rassicurati dai criteri adottati dal nuovo governo nella scelta dei funzionari giudiziari ed amministrativi e di quelli di polizia.

Per i primi, prevalsero i servigi prestati dinanzi allo Stato, per gli altri le libere opinioni ed eventuali torti subito sotto il passato regime.

Unico fatto degno di riprovazione fu il vergognoso processo al generale Rodio, reo di essere sempre stato onesto e zelante servitore dei Borboni e di aver resistito valorosamente alle armi francesi.

Fu accusato di aver spinto alla sommossa i popoli abruzzesi alle spalle dell'esercito francese (e n’aveva ben diritto!) e sottoposto alla corte marziale.

La Commissione Militare, che doveva essere inappellabile, lo dichiarò innocente, ma alcuni francesi, suoi nemici e due napoletani, indussero il governo a sottoporre Rodio ad un nuovo giudizio che si concluse con la condanna a morte dell’accusato.

Il fatto suscitò un vero scandalo sia perché l’accusato era ben noto per probità ed onestà sia perché fu fucilato alle spalle, come un traditore.

Per completare questo momento infausto per i francesi, l'isola di Capri, mal difesa, fu espugnata dagli  inglesi che facero prigionieri i soldati della guarnigione.

Il governo dell’isola fu affidato al colonnello Lowe, lo stesso al quale sarà affidato Napoleone nel suo esilio di Sant’Elena.

A migliorare l’atmosfera, diventata pesante, giunse il decreto dell'imperatore Napoleone, promulgato a Parigi il 30 marzo 1806, che proclamava Giuseppe Bonaparte re di Napoli per diritto di conquista.

Giuseppe, ricevette tale decreto mentre era a Reggio Calabria e si affrettò a far ritorno nella capitale per entrarvi in pompa magna preceduto dai rappresentanti del Senato francese, venuti per rendere omaggio al nuovo monarca.

I fedeli di Ferdinando, intanto, combattevano ancora strenuamente e sacche di resistenza restavano in tutto il territorio. Punto nodale di questa gagliarda difesa del territorio restava Gaeta i cui difensori avevano il vantaggio di potersi avvalere dell’aiuto della flotta che, oltre a provvedere agli approvvigionamenti, continuava a battere il fianco degli assedianti.

meno feroce fu la resistenza opposta ai francesi in Calabria.

Maratea resistette con grandissimo coraggio e i conquistatori, per vendetta, quando penetrarono in città, commisero nefandezze d’ogni genere  contro i difensori rei di aver fatto soltanto il loro dovere.

La notizie di tanta ferocia si diffuse rapidamente suscitando l’ira e lo sdegno della popolazione che, quando i francesi cinsero d’assedio Amantea, disertarono in massa la città e, utilizzando sentieri solo a loro conosciuti, assalirono la colonna nemica alle spalle senza mai ingaggiare aperta battaglia, ma logorandola con una guerriglia che oggi sarebbe definita partigiana.

Ferdinando, informato della nascita di questa resistenza, compose schiere di partigiani e soldati che sbarcarono a Reggio, espugnarono la città, cinsero d'assedio Scifia e proseguirono spediti verso Monteleone.

Le azioni dei soldati borbonici erano appoggiate dal generale inglese Steward che sbarcò con seimila soldati nel golfo di Sant’Eufemia, presso Nicastro.

Il generale Regnier, comandante nelle Calabrie, disponeva, a sua volta di una forza di seimila soldati.

Vedendo il doppio assalto di Siciliani e di Inglesi, raccolse i suoi uomini e si accampò in Maida, in un luogo ben munito, ma le truppe francesi furono assoggettate ad un continuo martellamento da parte della guerriglia locale giungendo al confronto con i regolari napoletani ed inglesi in condizioni molto precarie.

La battaglia si risolse con un’autentica disfatta per le truppe francesi, che furono costrette a ritirarsi sui monti di Nicastro e Tiriolo lasciando sul campo migliaia di morti, carriaggi ed artiglieria.

La notizia di questi rovesci militari, giunta a Napoli, diede coraggio agli avversari dei francesi e Giuseppe Bonaparte, messo alle strette, si vide costretto ad aumentare le forze di polizia ed a premiare spie e delatori che venivano lodati per la loro fedeltà al nuovo re.

Nacquero i “Tribunali speciali” e i “Tribunali militari”, detti allora “commissioni, cominciarono a lavorare a pieno regime emettendo un numero imprecisato di condanne a morte.

Non c’era bisogno di prove, bastava il solo sospetto, se non la semplice accusa fatta da una spia.

Si ammazzava con ogni mezzo, col fucile, la mannaia, il capestro.

A Monteleone un uomo fu appeso al muro affinché fosse lapidato dal popolo ed a Lagonegro un uomo fu impalato, con barbarie mutuata dagli ottomani.

Le carceri non riuscivano a contenere i prigionieri dei quali la polizia si liberava in due modi: o facendoli trucidare per la strada, mentre faceva finta di trasferirli in un altro carcere o traducendoli nelle più remote fortezze della Francia.

Il primo sistema veniva adoperato per gli sconosciuti, il secondo per i più noti e per quelli che, per censo o ricchezza, avrebbero potuto creare, in seguito, qualche problema.

L’avversione per i francesi e queste crudeltà diedero vita alla lotta partigiana o “resistenza”, che allora fu battezzata “brigantaggio” ed impegnò tutto il regno di Giuseppe e buona parte di quello di Murat.

I “briganti” mutarono le regole della guerra.

Non entravano nelle città, evitavano gli scontri in campo aperto, colpivano all’improvviso predavano e si nascondevano con la complicità della popolazione.

Invano i responsabili delle città cercarono di arginare questa piaga imprigionando cittadini incolpati di connivenza e calpestando sia le antiche leggi che quelle che il nuovo governo promulgava.

Spinto dalla disperazione, il governo cambiò tattica dando vita alla prima legge sui pentiti.

Il re, per editto, concesse il perdono a coloro che si consegnavano ed a coloro che denunciavano i compagni di lotta.

La legge, che fu adottata anche successivamente da Murat, diede vita al fenomeno, oggi  di moda, dei falsi pentiti e dei falsi delatori che, ricevuti premi, elogi e medaglie, tornavano a darsi alla macchia.

Ma questi provvedimenti straordinari non diedero i risultati sperati e la lotta divenne sempre più aspra.

Nella capitale molti erano i tafferugli e gli attentati che culminarono nella esplosione che fece crollare un’ala del palazzo Serracapriola, abitazione del ministro di polizia Saliceti.

In questo clima d’aspra e continua lotta, il sovrano partì lasciando provvedimenti che lasciavano intendere che non sarebbe tornato.

Emise, infatti, un editto nel quale affermava di essere stato chiamato, per volere di Dio, a reggere il trono di Spagna e delle Indie, d’essere dolente di dover lasciare il Regno di Napoli e d’essere addolorato per non essere riuscito a realizzare le buone cose che aveva avuto in mente.

Tali affermazioni furono accompagnate da uno Statuto destinato a regolare la vita del regno.

Detto Statuto, composto da undici capitoli, confermava, tra l’altro, la religione cattolica come religione di stato, dettava le regole da seguire in caso di morte del re e determinava la misura dell’appannaggio reale, fissato a circa due milioni di ducati, pari ad un ottavo della intera finanza pubblica.

L’ottavo capitolo delle Statuto dettava le regole per la creazione di una sorta di Parlamento.

Tale assisa sarebbe stata composta da cento membri rappresentanti del clero, della nobiltà, dei possidenti, dei dotti e dei commercianti.

Ottanta membri sarebbero stati scelti dal re e venti sarebbero stati designati da collegi elettorali nominati sempre dal sovrano.

Gli ecclesiastici, i nobili e i dotti avrebbero ricoperto la carica a vita mentre i possidenti ed i commercianti sarebbero stati avvicendati ad ogni sessione.

Il Parlamento aveva l’obbligo di riunirsi almeno una volta ogni tre anni ed il re, che lo convocava, avrebbe potuto prorogarlo o scioglierlo a piacimento.

Dopo quest’atto di alta democrazia, nel mese di luglio del 1808 la famiglia del re Giuseppe, composta dalla moglie e due figliuoli, lasciò Napoli ossequiata da ministri, consiglieri di stato, municipalità, generali e magistrati.

Partiva la regina di Spagna.

La sovrana uscì del palazzo preceduta dal maresciallo dell'Impero Jourdan che, a cavallo, apriva la strada alla carrozza reale, seguita da ambasciatori, potentati stranieri e cortigiani.

I ministri, i consiglieri di Stato ed altri personaggi degni di riguardo furono congedati alla frontiera del Regno mentre la duchessa di Cassano, la marchesa del Gallo, la principessa Doria Avellino e il principe d'Angri accompagnarono la regina in tutto il viaggio e tornarono ricchi di doni.

Dopo ventotto giorni d’interregno, per decreto dell'imperatore Napoleone, fu reso noto il re successore: Gioacchino Napoleone, gran duca di Cleves e di Berg, amatissimo cognato dell’imperatore dei francesi.

 

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