Tommaso Maestrelli è stato, senza discussioni, il miglior allenatore della generazione che ha
avuto la piena maturità all'inizio degli anni '70.
Signorile nei modi, profondamente umano nei rapporti con i calciatori, intelligente, rispettoso del
diritto d'informazione, Maestrelli rappresenta una figura unica nel panorama calcistico nazionale dei
primi anni '70.
Il suo stile nel rapporto con la squadra richiama Scopigno, ma non ha i suoi eccessi, nè il suo umorismo.
Tatticamente il suo gioco richiama il "calcio totale" dell'Olanda, ma sarà fra i pochi a non dichiararlo apertamente,
in un momento in cui "...olandese è bello".
I ricordi di chi l'ha conosciuto ci dipingono un uomo profondamente legato alla famiglia, una famiglia
"allargata" alla squadra.
Per Chinaglia è una specie di padre putativo che gli offre ospitalità, che lo capisce, lo incoraggia,
lo doma.
La sua gestione delle tensioni in seno ad una squadra complessa e "cattiva", il suo riuscire ad incanalarle
verso uno sbocco positivo individuato nel rettangolo di gioco e nella partita, restano un esempio
insuperato di psicologia applicata allo sport, in un epoca in cui "vincente" non era un'etichetta
spesa con facilità.
La Lazio di Tommaso Maestrelli.
Per chi ha la ma età è questa "La Lazio dello scudetto".
Per me pensare alla Lazio è pensare a Giorgio Chinaglia, non ad Alessandro Nesta.
E' più forte di me.
Quella Lazio aveva una personalità più netta, incisa ed incisiva di quella del secondo scudetto,
che, forse, tecnicamente era superiore in molti ruoli.
Il calcio, tuttavia, non è solo tecnica, o tattica, è anche sensazioni, immagini, suoni e colori.
La corsa di Chinaglia con l'indice alzato verso la Curva Sud, o il calcio nel sedere dello stesso
Chinaglia a D'Amico davanti agli spalti di San Siro gremiti per Inter-Lazio, sono momenti di
passione che il freddo calcio di oggi non conosce.
"Quella" Lazio venne definita "una banda di fascisti", i suoi campioni non avevano
la fama di bravi ragazzi, e come hobby sparavano con le pistole che portavano addosso, eppure, a chi
ha vissuto da spettatore neutrale quegli anni, difficilmente, in campo almeno, viene in mente una
squadra più coesa, più unità, un collettivo più portato al reciproco aiuto.
Questo rende la Lazio di Maestrelli un ricordo vivo ed indimenticabile, è questa sua "doppiezza",
questa sua "cattiva fama" a rendere ancora oggi affascinante quella squadra e la sua storia.
E' questo a far sì che sia quella "la Lazio dello scudetto"
Felice Pulici, il portiere.
"I calciatori sono tanti, il portiere è uno solo."
E' il suo modo di dire, ma anche il suo modo di essere, quando giocava in porta.
Quando arriva alla Lazio, desta parecchie perplessità
L'anno dello scudetto, in molti, lo avrebbero considerato il miglior n°1 del campionato.
Sergio Petrelli, il terzino destro.
Viene dalla Roma di Helenio Herrera.
Quando una notte arrivano i tifosi romanisti per non far dormire la squadra della Lazio
prima del derby, "Pedro" è uno di quelli che sparano ai lampioni.
Gigi Martini, terzino sinistro.
E' uno dei "duri", è "l'anti-Chinaglia" se davvero ce n'era uno.
"Non sopportavo gli eccessi di Chinaglia in campo, e neppure fuori." - ammette nelle interviste.
Dei calciatori di "quella" Lazio è l'unico ad essere "politicizzato", ora è parlamentare nelle file di AN.
"Ma non sono stato mai fascista." - precisa puntigliosamente.
Un personaggio unico.
Amico ed ex commilitone di Re Cecconi, nelle lunghe ore dei ritiri, invece di giocare a biliardo
studia da pilota e ha l'hobby del paracadutismo sportivo.
A 29 anni appena compiuti smette col calcio.
Giuseppe "Pino" Wilson, libero.
Napoletano nato in Inghilterra.
Porta gli occhiali e gioca con le lenti a contatto.
Gioca con Chinaglia già ai tempi dell'Internapoli ed è uno dei fedelissimi di Giorgione.
E' il capitano, per i suoi modi calmi e per la sua parlantina sciolta, diventa il portavoce
di Chinaglia, in campo e fuori.
Giancarlo Oddi, stopper.
E' il tipico mastino.
Gioca sull'uomo per non far giocare l'avversario, e ci riesce.
Contro di lui segnano in pochi.
Dopo lo scudetto e la malattia di Maestrelli, cade in disgrazia e viene ceduto, assieme a
Frustalupi al Cesena.
Per una questione di assegni a saldo di pendenze, avventatamente consegnati negli spogliatoi
prima della partita Cesena-Lazio, i due passano qualche guaio, quasi che quello scudetto
portasse con sè una sorta di maledizione.
Franco Nanni, mediano di spinta.
Passa alla storia per un gol nel primo derby, l'anno prima dello scudetto.
E' un tiratore formidabile, fa gol con continuità, ma l'anno dello scudetto, curiosamente, segna meno.
Bersaglio consueto delle ire di Chinaglia è uno di quelli che è più defilato.
Finisce la carriera nel Bologna.
Renzo Garlaschelli, ala destra.
"In dieci anni che ho abitato a Roma, non ho cenato mai a casa...", racconta ancora oggi Renzo Garlaschelli.
pavese di Vidigulfo.
"Viveur", "tombeur de femmes", e chi più ne ha più ne metta.
Morde la mela più degli altri, è la spalla ideale di Chinaglia, ma fra i due non c'è simpatia.
Le reti di Garlaschelli sono preziose, ma ancor di più lo è la sua capacità di creare gli spazi
al centravanti, un po' come accadeva a Bobo Gori con Gigi Riva.
Luciano Re Cecconi, interno destro.
Nessuno ha mai corso quanto lui.
Inesauribile.
Biondo, quasi albino, fisico robusto senza essere massiccio, tecnica buona, anche se non sopraffina.
Ha senso geometrico, ed è sempre al centro del gioco, un motore diesel con i guizzi di una F1.
Amico fraterno di Gigi Martini. la sua morte, assurda e violenta, avvenuta a pochi mesi da quella di Maestrelli,
resta una delle tragedie più paradossali della cronaca di quegli anni, un autentico episodio di
ordinaria follia metropolitana.
Giorgio Chinaglia, centravanti.
La potenza, la rabbia, la classe, l'istinto, la determinazione , tutto è superlativo in questo
ragazzone, scoordinato e prepotente che arriva, prodotto di una emigrazione di ritorno dalle Apuane via Galles.
A Swansea gioca anche a rugby, ed il suo calcio assomiglia a questo sport.
Le sue fughe a testa bassa sembrano preparare azioni "alla mano", contro le difese le sue sono
percussioni più che "uno-due".
Il ragazzone sembra voler sfogare contro i difensori avversari la sua rabbia, il ciclone di sentimenti
che gli urla dentro.
Maestrelli lo doma, lo ammansisce, lo responsabilizza.
I suoi eccessi sono poco sopportati, ma lo scudetto della Lazio è figlio, oltre che dei suoi gol, anche
delle sue memorabili sfuriate.
Unico nel suo ruolo, l'ultimo di una razza in via d'estinzione.
Arriva alla Lazio che molti lo considerano, a trent'anni, già finito.
E' il suo destino, la "pelata" lo fa sembrare molto più anziano, già negli anni della Sampdoria, alla Lazio
arriva dall'Inter, dopo una finale di Coppa Campioni persa e una stagione disputata solo in Europa
per la squalifica di Corso.
Prende in mano la squadra, i suoi ritmi sono sempre ottimali, è un allenatore in campo.
Un metronomo
Dopo tre anni splendidi viene sbolognato al Cesena che con la sua sapiente regìa arriva in Coppa UEFA.
Sarà capace, quando ormai anziano lo è davvero, di portare in Serie A la Pistoiese.
Vincenzo D'Amico, fantasista.
Piedi magici.
Forse il miglior prodotto del vivaio di quegli anni, assieme ad Antognoni.
Talento puro, genio e sregolatezza.
Ha diciannove anni quando vince lo scudetto, "90° minuto" nel servizio di celebrazione dello scudetto
biancazzurro gli pronostica un futuro in Nazionale.
Un futuro che, clamorosamente, non ci sarà.
Pochi, anzi nessuno, ha sperperato un simile talento.
E' un altro mistero di quella squadra: Vincenzino D'Amico, di quella "banda" è l'emblema.
Incapace di amministrarsi come atleta è stato uno dei pochi calciatori italiani a vincere,
realmente da solo, una partita.
Una classe immensa, ma impossibile.
Prefazione
"Uno scudetto senza amici"
Quando una squadra vince qualcosa, subito si parla di "gruppo", si straparla di
"amicizia", si dà immancabilmente merito della conquista alla "serenità
dell'ambiente".
Il calcio, spesso, ci racconta storie diverse, storie di allenatori "attaccati" agli armadietti,
di calciatori che a malapena si rivolgono la parola o si passano la palla.
Nessuna di queste storie, tuttavia, è paragonabile a quella della Lazio che, nei primi anni settanta,
conquistò uno scudetto, giocando veramente contro tutti, anche contro sè stessa.
E vinse.
Questa ricostruzione vuole essere un atto di ammenda nei confronti di quella
squadra che non ricevette a suo tempo, almeno dal pubblico neutrale, il
giusto riconoscimento ai propri meriti.
Treno dei Pendolari, Aprile-Giugno 2004
L'inizio della storia
Il campionato 1973-74 avrebbe potuto passare alla storia
per molti motivi.
Il più probabile, alla vigilia, era considerato il ritorno di Helenio Herrera
all'Inter, dopo una permanenza, invero poco ricca di soddisfazioni, alla
Roma. "Il Mago", tornato all'Inter, è una delle cose da ricordare di quel
Campionato, per molti versi indimenticabile.
Proprio l'Inter, un'Inter assetata di rivincite dopo due anni da comprimaria,
è assieme al Milan , beffato nella "fatal Verona" ed alla Juventus Campione
d'Italia per la seconda volta consecutiva, una delle favorite per lo scudetto.
L'altra è la Lazio, che uno scudetto clamoroso, direttamente l'anno della
promozione dalla Serie B, l'ha appena sfiorato.
Facciamo un salto indietro.
All'ultima giornata, appaiata alla Juve, un punto sotto al Milan, la Lazio
gioca al San Paolo, ospite di un Napoli a dir poco senza stimoli.
Alla fine del primo tempo si sparge sugli spalti ed in campo la notizia
che il Milan sta perdendo nettamente a Verona e che, all'Olimpico, anche
la Juve è in svantaggio.
Nell'intervallo qualche laziale che conta ,e che ha credito a Napoli, fa
capolino nello spogliatoio azzurro.
Le malelingue dicono anche che abbia deleghe per un'offerta interessante,
ma i napoletani rispondono che qualcun altro ha già pensato a contattarli
ed a motivarne l'impegno.
La Lazio perde quella partita e quello scudetto e non sono tantissimi quelli
che l'accreditano della capacità di ripetersi.
"Una banda di fascisti..."
Quella squadra è la creatura di Tommaso Maestrelli, un allenatore
giovane e dalla mentalità aperta alle novità.
Qualche anno prima ha vissuto un'esperienza non proprio fortunata a Foggia,
la sua squadra è retrocessa in B giocando bene, ma è pur sempre retrocessa.
Sono cose che in Italia si pagano.
Anche la sua Lazio gioca bene, eppure, eccezion fatta per un centravanti
italo-gallese che si è già segnalato come una forza della natura tanto da
arrivare in Nazionale giocando in serie B, Giorgio Chinaglia, gli altri
non sono calciatori dai nomi capaci di far sognare.
La squadra è stata assemblata con i soldi di Umberto Lenzini, una sorta
di Sensi "lazziale".
Gli investimenti del "Sor Umberto" sono oculati, di certo non si sciala.
Il portiere si chiama Felice Pulici, ha giocato nel Novara, ma non
è fra quelli che eccellono nel ruolo, secondo molti sarebbe addirittura
meglio il suo vice, Moriggi.
Terzini sono Petrelli, ex-romanista, e Martini, autentica
rivelazione nel ruolo di fluidificante, ritenuto al più un buon calciatore,
ma "uomo-forte" dello spogliatoio.
Libero gioca un napoletano dal cognome inglese, ereditato dal padre; si
chiama Giuseppe Wilson, ma lo chiamano Pino.
E' stato nell'ultimo campionato il migliore nel suo ruolo, ma la sua statura
lo penalizza molto nel gioco aereo e lo costringe a puntare sul tempismo
e sul senso della posizione.
Fra gli addetti ai lavori suscita più perplessità che entusiasmi, anche
per la caratteristica, all'epoca poco comune, di giocare con le lenti a
contatto.
Wilson, tuttavia, è una figura carismatica nella squadra, spesso funge da
allenatore in campo e comanda il gioco.
Ed è amico di Chinaglia col quale ha giocato in Serie C all'Internapoli.
Stopper è il giovane Oddi, romano di borgata.
Robusto, un corazziere.
La sua prestanza fisica gli permette di supplire a qualche deficienza tecnica
e la sua intesa, quasi simbiotica, con Wilson lo aiuta molto.
A centrocampo la squadra poggia su un quadrilatero perfettamente dimensionato.
Due stantuffi, Nanni e Re Cecconi, un regista vero, forse
l'ultimo nel suo ruolo, Frustalupi, e un tornante mancino ricco di
estro e di fantasia, un autentico fuoriclasse in potenza: il giovanissimo
D'Amico.
Di punta, accanto a Chinaglia, autentico trascinatore della squadra,
gioca un'ala guizzante e veloce, uno specialista nelle diversioni : Garlaschelli.
Tanto Chinaglia è dirompente, quanto Garlaschelli è aggirante.
I due, tanto per essere chiari, non si hanno reciprocamente in simpatia.
L'uno punta la porta di potenza pura, da autentico ariete, l'altro è pronto
a colpire sulle palle morte, sui rinvii sporchi cui le difese, spesso, sono
costrette per arginare le incursioni del poderoso compagno di reparto.
I due si integrano a meraviglia, ma fuori dal campo non mancano i momenti
di tensione.
Non sono tempi di "panchine lunghe", pertanto le riserve Polentes,
Facco, Inselvini, Manservisi e Franzoni, in
pratica uno per reparto, sono ritenute sufficienti.
Nnonostante tutto, però, nessuno indica la Lazio come favorita per lo scudetto.
E' un bene.
La prima svolta arriva in Coppa UEFA, ancora prima che il campionato abbia
inizio.
Opposti ai modesti svizzeri del Sion, i biancazzurri, trascinati da un Chinaglia
entusiasmante, vincono nettamente la gara d'andata: 3-0 con una tripletta
del bomber.
Al ritorno, tuttavia, ecco la "lazietta" che non t'aspetti.
Gli elvetici vincono 3-1 e la Lazio si salva solo grazie ad un gol di Garlaschelli
segnato in avvio.
E' un brusco risveglio, la squadra sembra sfilacciarsi alla prima difficoltà,
incapace di gestirsi contro avversari più avanti nella preparazione.
Oltretutto lo spogliatoio già diviso si spacca dopo una furibonda lite fra
Martini e Chinaglia.
Maestrelli fa tesoro dell'esperienza che impone un bagno di umiltà al gruppo
e all'ambiente, ma soprattutto capisce che lo scudetto verrà conquistato
solo se il carattere della squadra troverà sbocchi positivi.
Il problema, in altri termini non è tecnico, né tattico, ma ambientale.
In campo, infatti, i problemi sono facilmente risolvibili.
Il gioco della Lazio trova piano, piano continuità, conferma nel movimento
corale e nel ritmo le sue caratteristiche principali, il suo modo di stare
in campo ricorda l'Ajax dominatore europeo anche se le individualità sono
di caratura inferiore.
La Lazio è equilibrata in ogni reparto, l'utilizzo di D'Amico al posto di
Manservisi, è la quadratura del cerchio.
Il ragazzo, più versatile del titolare dell'anno prima, diventa l'uomo che
crea la superiorità numerica in attacco, il fantasista che salta l'avversario,
l'uomo dell'assist vincente.
Con lui la squadra perde in linearità e guadagna in fantasia.
Il problema arriva nello spogliatoio, nella feroce rivalità fra i clan.
Il problema, è , paradossalmente il miglior giocatore , la sua gestione
in un gruppo in cui vi sono altri caratteri forti.
Il dominatore, il terminale di ogni schema offensivo, ma anche il problema
è Giorgio Chinaglia.
Un'infanzia difficile, vissuta fra le colline di detriti di carbone, a Swansea
nel Galles dove l'Italia vive nei ricordi degli emigranti e si identifica
in John Charles, regala un ragazzone determinato e potente.
Testardo, prepotente, ma anche coinvolgente: un leader.
Arrivato in Italia, ha giocato nell'Internapoli, in serie C, dove è stato
notato dalla Lazio che lo ha preso e lo ha lanciato in prima squadra dove
si è imposto grazie ai suoi gol, l'unica cosa che riesce a farlo sopportare.
A ventisei anni, Giorgio Chinaglia, è nel pieno della sua maturità di atleta
e di capo, è un despota uno che o si segue o si odia.
Lo chiamano "il gobbo" per la sua complessione fisica, con la testa curiosamente
incassata nelle spalle ricurve, quasi fosse priva di collo, il torace ipertrofico
rispetto alla vita.
Le gambe, lunghe e poderose, assieme alle braccia forse troppo spioventi
dalle spalle, non giovano all'eleganza del suo aspetto fisico, ma la funzionalità
di quella macchina di ossa e muscoli nella dinamica del gioco del calcio
è impressionante.
In progressione è imbattibile, possiede tiro rispettabile anche dalla distanza,
senso acrobatico, la sua forza d'urto è devastante.
Oltretutto non conosce la paura.
Si esalta nelle condizioni di tifo avverso, più si sente odiato, più si
carica.
E' il risultato degli anni vissuti da figlio di emigranti che non sono passati
senza lasciare un segno indelebile.
Tommaso Maestrelli ha saputo conquistarne la fiducia, smussarne un carattere
impossibile, rispettarne i silenzi e le tensioni che in passato gli erano
costate parecchio con allenatori meno disponibili a capirne il carattere
spigoloso.
Chinaglia ripaga la fiducia e la comprensione del tecnico a suon di gol
che lo rendono sopportabile anche ai compagni.
Quella Lazio, tuttavia, è anche la storia di uno spogliatoio spaccato, una
storia di pugni in allenamento, di porte sfondate a calci, di risse sotto
la doccia.
Una storia di pistole, di spari contro i lampioni nel ritiro dell'albergo.
Leggende, secondo alcuni.
Realtà secondo altri.
Esagerazioni, ma con un fondo di verità, la versione più probabile e gettonata.
Maestrelli capisce di avere un tesoro fra le mani, un'occasione che capita,
se hai fortuna, una volta nella vita ed è bravo a capire di doverla difendere
soprattutto dagli eccessi che, ben convogliati, ne determinano le caratteristiche
migliori.
Il tecnico arriva a far allenare la "rosa" in due gruppi per evitare che
"i capataz" trascendano.
Uno spogliatoio fa capo a Chinaglia e Wilson, amici dai tempi dell'Internapoli,
l'altro a Martini e Re Cecconi ex commilitoni .
Si parla anche di politica.
"E' una squadra di fascisti" - si dice in giro.
Gigi Martini, allora, dichiara pubblicamente di votare MSI, attualmente
è parlamentare eletto nelle liste di Alleanza Nazionale.
Anche Re Cecconi e Petrelli hanno fama di simpatizzanti dell'estrema destra,
lo stesso Chinaglia non fa mistero della sua simpatia per Giorgio Almirante.
Dietro di loro anche gli altri si incolonnano, i saluti romani spesso spiccano
nelle foto della Curva Nord, secondo i ben informati molti dei calciatori
della Lazio giocano con le catenine ornate di croce celtica.
Sono palesi esagerazioni, la stampa di sinistra, non sempre equidistante,
tende a strumentalizzare certi comportamenti per colorare di una fede politica
la squadra romana.
Eppure la Lazio è "collettivista" al massimo, i premi partita vengono rigorosamente
divisi per l'intera "rosa", non solo fra chi ha giocato e chi è andato in
panchina, come accade in molte altre squadre.
Raccontano anche che i calciatori si tassino per rendere più corposa la
busta paga della lavandaia, del magazziniere, del guardiano di Tor di Quinto.
Leggende ? Può essere, ma c'è chi lo ha scritto e non c'è chi lo abbia smentito.
Ma la Lazio ha altre stranezze.
Tutti girano armati, spesso nei lunghi ritiri in un albergo dell'estrema
periferia romana ingannano il tempo col tiro a segno, ma si racconta anche
di qualche scherzo pericoloso.
Una sera, prima di un derby decisivo, gli ultras giallorossi decidono di
"far caciara" sotto le finestre dell'Hotel che ospita la Lazio, prima che
il Direttore chiami i rinforzi, qualcuno spara ai lampioni del viale d'accesso.
Un'altra leggenda ? Può essere.
Fra le certezze c'è il fatto che Martini e Re Cecconi prendono il brevetto
di paracadutismo, la società lascia fare nonostante sia un passatempo discutibile
per un calciatore professionista.
Discutibile in quanto rischioso.
L'anno buono
Un'altra caratteristica unica di quella squadra irripetibile
sono le partitelle di allenamento, nelle quali nessuno vuol perdere e che
il povero Maestrelli vive con angoscia.
Ogni tackle può portare all'infortunio, perchè si gioca undici contro undici
e la gamba non la toglie mai nessuno.
"Peggio che in partita" perché "da 'quelli' non si può perdere.
Mai.
Anni dopo Borgo, leggendario capitano della Pistoiese e Primavera della
Lazio ai tempi dello scudetto, racconterà di aver spesso avuto paura durante
quelle sfide interminabili.
La spaccatura fra i due clan è infatti insanabile, Martini in particolare
non sopporta gli atteggiamenti dispotici di Chinaglia ed il venerdì la partitella
è spesso l'occasione per la resa dei conti.
Qualcuno indossa i parastinchi in quell'occasione anche se ne fa a meno
nelle partite di campionato.
La Lazio è tutto questo, pistole, pugni, bottiglie rotte, calcioni in allenamento.
Ma la domenica, spesso, è puro spettacolo.
Quelle tensioni, quella rabbia si fondono allora in agonismo, la squadra
diventa monolitica, le scazzottate, le bottiglie rotte, brandite minacciosamente
per farsi le proprie ragioni, sono lasciate fuori dal campo e la domenica
giocano tutti per lo stesso scopo : vincere.
E' un'orchestra che ormai conosce alla perfezione lo spartito.
Alla terza giornata, la prima svolta.
A Torino, ospiti della Juventus, i biancazzurri passano in vantaggio con
Chinaglia e sembrano in grado di vincere in bellezza la terza partita consecutiva
e quindi tentare la prima fuga.
Poi, nella ripresa, il crollo.
La Juve segna tre volte e c'è chi parla, dopo, negli spogliatoi, di gente
sbattuta contro gli armadietti da un Chinaglia letteralmente furibondo.
E' un momento difficile; la squadra biancazzurra inanella tre pareggi di
fila, due all'Olimpico.
La vetta sembra allontanarsi, ma, mentre il campionato snoda le sue spire,
la Lazio trova coraggio e continuità.
Maestrelli amministra le tensioni; la squadra supera i suoi eccessi se non
con la disciplina, con la convinzione, smisurata, nei suoi mezzi.
Frustalupi detta i ritmi e spesso li rallenta per evitare che la frenesia
porti la squadra a scoprirsi troppo e pagare il suo compiacimento nel bello,
Re Cecconi e Nanni garantiscono corsa e soluzioni balistiche quando l'attacco
viene imbavagliato.
Accade col Milan, quando Re Cecconi coglie il gol della vittoria all'ultimo
assalto.
E' l'undicesima giornata, la Lazio si conferma capolista, una posizione
raggiunta in coabitazione quattordici giorni prima, e in solitario la settimana
precedente.
Non lascerà più lo scettro del primato, fino alla fine.
Ipswich
In quelle prime giornate, tuttavia si compie il destino
di quella squadra grande e strampalata.
Al secondo turno di Coppa UEFA, i biancazzurri sono opposti ad una squadra
inglese di secondo piano, l'Ipswich Town.
La prima gara si gioca in Inghilterra, e si conclude con un disastro.
In meno di un'ora una Lazio irriconoscibile, che ha snaturato il suo gioco
con l'utilizzo del terzino Petrelli al posto dell'ala Manservisi o del fantasista
D'Amico, incassa quattro reti a zero, tutte segnate dall'interno Whymark.
Il grave, tuttavia, accade nella gara di ritorno, caricata di significati
anche extracalcistici.
In un ambiente surriscaldato la Lazio mette in campo una rabbia inutile,
quanto poco opportuna, visto il risultato dell'andata.
Dopo meno di mezz'ora, i biancazzurri sono sul 2-0, e l'entusiasmo per l'incredibile
possibilità di una rimonta incendia gli animi, la partita diventa una battaglia
senza esclusione di colpi.
Quando l'arbitro olandese Van der Kroft concede un rigore agli inglesi,
si scatena il finimondo.
Sulle tribune si scatena una caccia all'uomo e la bandiera inglese, ospitata
su uno dei pennoni dell'Olimpico viene data alle fiamme.
La partita continua.
Chinaglia, letteralmente scatenato segna altre due volte, ma la gara si
chiude su un inutile 4-2 per la Lazio.
L'UEFA non avrà la mano tenera con la Lazio: squalifica per tre anni , poi
ridotta ad un anno solo, da tutte le manifestazioni europee.
In campionato, invece, le cose vanno per il meglio.
Con D'Amico titolare inamovibile, la Lazio diventa Campione d'inverno con
tre punti sulla Juve, la Fiorentina ed il Napoli, nonostante perda Re Cecconi
per un infortunio che lo terrà lontano a lungo dai campi di calcio.
I banditi e i Campioni
L'inizio del girone di ritorno è però molto tribolato.
A Marassi, un gol di Maraschi ed una prestazione molto sofferta condannano
la Lazio alla sconfitta, quanto mai inopportuna in quanto arriva a soli
sette giorni dalla sfida scudetto contro la Juve che si è avvicinata a due
soli punti.
All'Olimpico, quel 17 febbraio 1974, la Lazio sfodera una delle sue partite
più belle.
In meno di mezz'ora la Juve è alle corde, Garlaschelli e Chinaglia portano
la Lazio sul 2-0- Sembra fatta, ma il signor Panzino di Catanzaro, arbitro
della partita, sale al proscenio.
Nei primi dieci minuti della ripresa concede due rigori ai bianconeri, sul
primo, calciato da Cuccureddu, Felice Pulici compie un miracolo, ma sul
secondo Anastasi accorcia le distanze.
La Juve torna in partita con oltre mezz'ora da giocare.
Dieci minuti dopo, tuttavia, l'arbitro concede un rigore anche alla Lazio
che Chinaglia, dopo aver conquistato con mestiere, trasforma con rabbia.
Sarà la vittoria decisiva, tipica di una squadra senza mezze misure.
Altra pietra miliare il derby di ritorno: 2-1 sofferto con la Roma in vantaggio
e il punteggio ribaltato in cinque ruggenti minuti con una magia di D'Amico
ed un rigore di Chinaglia che, quel giorno, inventa la sua "griffe": l'indice
della mano destra mostrato alla Curva Sud in un gesto di sfida.
La domenica dopo, tre reti di un Chinaglia cosmico al San Paolo rintuzzano
l'ultimo assalto del Napoli e tengono a distanza di sicurezza anche la Juve
che non molla.
Da qualche domenica è tornato Re Cecconi, ma la squadra appare stanca, soprattutto
c'è chi pensa che quella gabbia di matti stia per cedere dal punto di vista
dei nervi.
Emblematica la venticinquesima giornata.
La Lazio riceve il Verona all'Olimpico e va subito in vantaggio.
Sembra fatta, ma accade l'incredibile.
Zigoni, che già l'anno prima ha segnato un potenziale gol guastafeste "scusandosi"
con l'Olimpico, pareggia e mentre sta per finire il primo tempo Oddi, il
borgataro Oddi, il "lazziale" Oddi, mette a segno il più classico degli
autogol.
Sull'Olimpico cade il gelo.
Chinaglia se la prende con tutti, con Nanni rasenta lo scontro fisico nel
tunnel, e molti già prevedono guai nel chiuso dello spogliatoio.
Ma sulla porta trovano Maestrelli che li…rimanda tutti in campo.
La Lazio, in pratica non fa l'intervallo.
Si dispone sul campo, ogni calciatore al suo posto, e aspetta.
Il pubblico, dapprima è sorpreso, poi comincia ad incitare la squadra.
Chinaglia sfoga la sua rabbia prendendo a calci il pallone anziché i compagni.
Quando il Verona, sorpreso, rientra in campo l'Olimpico è una bolgia.
I veneti sono letteralmente travolti, in mezz'ora scarsa il punteggio è
ribaltato : 4-2 per la Lazio.
"Grazie Roma..."
La giornata realmente decisiva è, tuttavia, la ventottesima.
Il giorno dopo il venticinquesimo anniversario di Superga, la Lazio sfida
il Toro che la batte ancora, come aveva fatto all'andata.
Paolo Pulici, scatenato, segna una splendida doppietta nel primo tempo,
la Lazio lotta come può, ma è sotto di un gol a venti minuti dalla fine.
Può essere la svolta.
All'Olimpico, infatti, la Juve, avversaria irriducibile, ha raggiunto il
pareggio ad inizio ripresa ed attacca a pieno organico.
Sembra di rivedere un film già visto, quello dell'ultima giornata dell'anno
precedente con la Juve che vince all'Olimpico e si prende lo scudetto.
Stavolta, tuttavia, il finale è diverso.
A quindici minuti dalla fine, Pierino Prati, nuovo "Re di Roma", batte Dino
Zoff ed inchioda la Juve alla sconfitta.
E' la svolta definitiva.
La settimana dopo la Lazio ospita all'Olimpico il Foggia, in piena lotta
per non retrocedere.
E' una partita dura, cattiva, violenta anche.

Quel giorno, è il 12 maggio 1974, si vota per il Referendum sul divorzio.
Il risultato, all'Olimpico, non si sblocca.
Al quarto d'ora della ripresa Garlaschelli, finalmente, conquista un discutibile
rigore.
Per i foggiani si è tuffato, sono letteralmente inviperiti, volano spintoni
e parole grosse.
Quando la voce di Enrico Ameri interrompe la cronaca di un collega di "Tutto
il Calcio minuto per minuto" per dare l'annuncio, l'Olimpico è un acquario.
Chinaglia sul dischetto prende la rincorsa, non calcia benissimo, ma il
portiere foggiano, Trentini si chiama, è battuto lo stesso.
Chinaglia accomoda con cura il pallone sul dischetto.
Attorno a lui, l'Olimpico trattiene il respiro...

In panchina, Tommaso Maestrelli, resta seduto, mentre nessuno degli altri
dieci "lazziali", trova la forza di guardare verso la porta foggiana.
Quando Chinaglia comincia la rincorsa il silenzio diventa assoluto, poi
il tiro...
...il gol e la festa può cominciare...
Ancora sofferenza fino alla fine: Garlaschelli, picchiato dai foggiani in
cerca di vendetta, reagisce e l'arbitro lo espelle, Martini si è fratturato
la clavicola.
La Lazio in dieci resiste, qualche brivido poi è scudetto.
Così una squadra costituita da para' e da pistoleri, un gruppo così diviso
da costringere l'allenatore a far spogliare i due clan in due spogliatoi
diversi per evitare il "contatto", quella squadra che fra gli altri anche
Pasolini definirà senza mezzi termini "una banda di fascisti", vince lo
scudetto.
Mai una squadra ha avuto contro l'intera opinione pubblica come la Lazio
di Chinaglia, Martini e Re Cecconi.
Non ricordo un simile astio, altrettanta prevenzione, nei confronti di undici
atleti come contro i biancazzurri verso la conquista del tricolore.
Parlo di squadra, non di società, perché la Lazio del primo scudetto era
principalmente una squadra di uomini, di volti, di persone fisiche, non
uno stemma, non un sodalizio.
Erano quegli undici, quella "sporca dozzina".
La Lazio del primo scudetto erano Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi,
Nanni, Garlaschelli, Re Lecconi, Chinaglia, Frustalupi e D'Amico.
Ed era soprattutto e sopra tutti, Tommaso Maestrelli, un allenatore cui
la sfortuna ha negato molto.