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Guidava il clan dopo l’arresto del fratello: «Ho ordinato diversi omicidi»
La donna boss si pente: lo faccio per i figli
La capomafia Giusy Vitale: dirò tutto ai giudici, nomi di politici, affari e incontri da Provenzano
STRUMENTI
PALERMO - Parla di mafia e politica, di omicidi, di affari miliardari. Parla di rapporti ad alto livello, di amministratori compiacenti, di incontri ravvicinati con personaggi «molto importanti». Parla e fa tremare i potenti siciliani, Giusy Vitale, 33 anni, la prima donna boss della mafia e adesso anche la prima pentita. Una miniera di informazioni che potrebbe scatenare un terremoto giudiziario in mezza provincia.
Giusy Vitale (Lannino/Studio Camera)
DAL CARCERE
- «L’ho fatto per amore dei miei figli - ha detto -. Voglio fare la madre, voglio stare vicina ai miei bambini. Devono crescere con me, se sto in carcere li perdo». Sono state queste le prime parole di Giusy, sorella di Vito e Leonardo, rampolli di una dinastia mafiosa che per lungo tempo ha seminato terrore a Partinico e dintorni. Sono stati loro negli ultimi vent’anni i signori di questo pezzo di provincia da sempre in mano ai padrini. Quando li hanno arrestati, nell’aprile del 1998, lo scettro è passato a lei, che in nome della continuità familiare ha guidato il clan con la risolutezza e la ferocia dei mafiosi più irriducibili.
L’EX «POSTINA» - Da semplice «postina» mandata in giro nei paesi a recapitare biglietti per i latitanti, è diventata capomandamento. Sua ogni decisione. Assunzioni, promozioni: la manager della mafia. Capace anche di ordinare l’uccisione dei nemici, come lei stessa ha ammesso nelle sue rivelazioni, spiegando che dopo tanto sangue i sentimenti di madre si sono rivelati più forti delle radici mafiose. Basta, ha detto, decisa a rompere con il passato su tutti i fronti. Anche con il marito, militante del clan, dal quale ora vuole separarsi. Una settimana fa i carabinieri sono andati a prendere i bambini a casa dei nonni per trasferirli nella località segreta dove Giusy Vitale vive controllata giorno e notte. E adesso temono il botto coloro che hanno fatto affari con la mafia, i boss emergenti finora protetti dal silenzio, i picciotti che riscuotevano il «pizzo». Dopo la retata dell’aprile 1998, che ha decapitato la cosca di Partinico mandando in galera anche i fratelli e il marito, lei è rimasta sola con i figli nella roccaforte del paese dove i ragazzi della «famiglia» andavano a ossequiarla e a prendere ordini. Madre e boss. «Ho ordinato diversi omicidi», ha confessato Giusy Vitale ai sostituti procuratori dell’antimafia Maurizio De Lucia e Francesco Del Bene che da oltre due mesi raccolgono le sue dichiarazioni. Centinaia di pagine di verbali, con informazioni di prima mano su personaggi, storie e retroscena di mafia spesso inediti.

I CONTATTI - La pentita ha parlato a tutto campo, svuotando l’anima dei tormenti e toccando anche il tema più scottante, quello dei rapporti con politici locali e regionali, con pubblici amministratori, con colletti bianchi appartenenti a svariate categorie professionali. Un paio di volte - era il 1993 e Totò Riina era stato appena arrestato - accompagnò i fratelli nel covo di Bernardo Provenzano, ma - ha spiegato - lei rimase fuori e non ebbe alcun contatto con la primula rossa di Cosa nostra. Sempre al servizio di Vito, anche per questioni più frivole. Era Giusy che accompagnava l’amante del fratello nel suo rifugio per rendergli più tollerabile la vita da fuggiasco, salvo poi concedersi anche lei qualche scappatella con un paio di amici, come risulta dagli atti processuali.

I DELITTI - Tornando alle attività più strettamente mafiose, la donna ha ammesso, tra l’altro, la sua responsabilità nell’omicidio di un imprenditore di Partinico, Salvatore Riina (omonimo del boss corleonese), sospettato di essere un informatore di Provenzano. Vero è che il superlatitante è uno della compagnia, ma Giusy non poteva sopportare di avere tra i piedi una spia, un infame a casa propria. Arrestata due anni fa, rischiava l’ergastolo. «Allora ho pensato ai miei figli e ho capito che non avevo altra strada», ha detto.
Enzo Mignosi
26 marzo 2005