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Genere | Drammatico, |
Produzione | Italia |
Durata | 91 minuti |
Al cinema | 1 sala cinematografica |
Regia di | Umberto Contarello |
Attori | Umberto Contarello, Elleri Claire, Carolina Sala, Margherita Rebeggiani Lea Gramsdorff, Stefania Barca, Alessandro Pacioni, Dario Cantarelli, Bruno Cariello, Eric Claire, Toni Laudadio, Manuela Mandracchia, Antonio Piovanelli. |
Uscita | giovedì 15 maggio 2025 |
Tag | Da vedere 2025 |
Distribuzione | PiperFilm |
MYmonetro | 3,00 su 3 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento sabato 10 maggio 2025
Un uomo aggrappato ai successi del passato si trova a fare i conti con un presente nostalgico e solitario. Una storia dolce e malinconica, ma che lascia luce alla speranza. L'infinito è 81° in classifica al Box Office, ieri ha incassato € 363,00 e registrato 389 presenze.
CONSIGLIATO SÌ
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Umberto è uno sceneggiatore avvilito. Non riesce più a provare piacere o felicità per nulla, si trascina per la casa, come per la città, con uno sguardo triste e disincantato. Si nasconde dalla vita, dentro i cappotti come nella siepe per guardare sua figlia giocare. Aiuta una giovane sceneggiatrice a scrivere una storia, ammira una suora armena pulire i vetri delle finestre, passa le serate in un locale a bere alcolici, mescolando il ghiaccio con le mani. Un ragazzo bussa alla sua porta, e gli rivela una notizia importante. Una sua ex viene a trovarlo e gli regala una serata diversa, un'altra deve decidere se finanziare o no la sua storia, e una suora lo accompagna al cimitero dov'è sepolta sua madre. Lì Umberto, per gli amici Umbe, dovrà fare i conti con traumi e memorie del passato.
È un film malinconico, a tratti poetico, a tratti catatonico, ma sempre infarcito di aforismi, quello che segna il debutto alla regia dello sceneggiatore Umberto Contarello.
Regista ma anche attore esordiente, ne L'infinito si cuce addosso un personaggio autobiografico - e dunque inevitabilmente autocompiaciuto - con il benestare del sodale Paolo Sorrentino, che figura tra i produttori del film.
Un'opera dedicata a Carlo Mazzacurati che si rivela un intimo affresco della decadenza di un creativo che dopo il famigerato premio Oscar - la cui presenza spettrale attraversa tutto il film - sembra essersi perso in una voragine di nostalgia, rimpianto, noia e tempo sospeso. O di retorica e vittimismo, come gli dirà uno studente di ventitré anni bussando alla sua porta.
La cifra del racconto si assesta tra il decadente e l'ironico, con un umorismo alla Kaurismaki, specie nell'insistenza sull'ossessione filoamericana del "turning point" degli sceneggiatori contemporanei e nel rivendicare l'importanza delle "scene che non servono a niente", ma anche nella "to do list" in cui il protagonista inserisce compiti come "andare in banca a chiedere pietà" e "non impazzire". Per non parlare del suo rapporto con il fedele e saggio inserviente Lucas, fissato con i mandarini e con la Conad, basato su un sottile e costante umorismo.
L'influenza sorrentiniana è dichiarata e risulta evidente nella messa in scena, come anche nel tipo di ironia e nella descrizione di certi personaggi - le suore, ma anche lo stesso Umberto, versione ancor più sconsolata di Gambardella di La grande bellezza. La Roma descritta nel film è la stessa, la scena della corsa in monopattino con la suora sarebbe potuta spuntare anche lì. A livello formale incuriosisce la scelta di un bianco e nero interrotto a tratti da dissolvenze in rosso, suggestionano le musiche di Danilo Rea, colpiscono attrici come Manuela Mandracchia e Carolina Sala, ma anche il volto evocativo dello stesso Contarello. Del quale, neanche a dirlo, "funziona" - verbo che il protagonista trova non a torto più adatto ai rubinetti che ai film - gran parte della sceneggiatura, anche se alla lunga la ricerca spasmodica dell'aforisma ad effetto a tutti i costi finisce per sfiancare.
Molti dei dialoghi non sono che duelli verbali («Hai paura di morire?», «No, di sopravvivere» - "L'amore non dovrebbe mai essere pigro", «L'amore è una cosa per giovani» e così via), di cui sembra scusarsi lo stesso autore, quando si autodefinisce "un parolaio". Parolaio alla Montale, viene da pensare: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti (...) Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Verboso, autoreferenziale, un lezioso esercizio di stile fine a se stesso, oppure un film poetico sulla solitudine, l'abbandono, l'avvilimento (del) creativo? Il confine tra le due prospettive in quest'opera è molto labile, piacerà a chi ama i film sulla scrittura e le sue nefaste conseguenze emotive e psicologiche, verrà detestato da chi, passata la prima mezzora, si aspetta che il film si evolva e si trasformi in altro, o magari spera nel famigerato "turning point".
Comunque la si pensi, l'intento dichiarato dell'autore di firmare «un piccolo e intimo film da neofita che regala due ore di oblio» pare raggiunto, per quanto in modo talora opinabile. Il titolo si spiega con la scena visivamente più d'effetto del film, tra la neve, che lasceremo allo spettatore scoprire.
Un bravo direttore della fotografia può fare la differenza in un film d’autore? Certamente, soprattutto se riesce a comprendere il senso profondo del film che sta nelle intenzioni del regista.
Nel caso di L’infinito, diretto e coscritto dallo sceneggiatore di lungo corso Umberto Contarello, la presenza di una grande DOP è determinante: parliamo di Daria D’Antonio, una delle poche (per ora) direttrici della fotografia in Italia, che aveva già alle spalle opere come Il padre d’Italia di Fabio Mollo, Ricordi? (guarda la video recensione) di Valerio Mieli e Tornare di Cristina Comencini, prima di essere “scoperta” da Paolo Sorrentino che l’ha voluta con sé da È stata la mano di Dio, per cui D’Antonio ha vinto il David di Donatello, prima donna nella sua categoria.
È proprio Sorrentino, cosceneggiatore e coproduttore de L’infinito, il punto d’incontro fra D’Antonio e Contarello. E non c’è dubbio che lo sguardo della direttrice della fotografia faccia la differenza: quello sguardo impietoso e allo stesso tempo caritatevole che posa sul protagonista del film, di cui rivela i segni del tempo ma anche l’azzurro infantile degli occhi.
La fotografia di D’Antonio è morbida e gentile, ma non chiamiamola “femminile”, almeno se non sottolineiamo che sa diventare anche tagliente, stagliando le figure umane contro lo sfondo, illuminate da una luce laterale a volte crudele, e trasponendo in alta definizione i personaggi delineati in sceneggiatura da Contarello e Sorrentino.
A D’Antonio basta la luce di un cellulare, o di una lampada appesa strategicamente al soffitto, per restituire al buio sfumature pregne di significati, racconta l’avvilimento di un Oblomov contemporaneo scavando nel suo disfacimento fisico prima ancora che esistenziale, ne attraversa i capelli facendoli sembrare una nuvola trasparente.
La direttrice della fotografia cattura la luce sulle mani di due innamorati o di due ex amanti dando loro diverse gradazioni di senso, acchiappa i rifessi di uno specchio implacabile, orla un bicchiere di cristallo, accarezza il movimento delle acque del Tevere.
Se il mantra di “Umberto” è quello di voler scrivere “scene che non servono a niente”, quello di Daria sembra essere non creare mai inquadrature inutili, illuminazioni a casaccio, o fuori fuoco senza motivo. Le sue transizioni accentuano o dileguano la percezione che abbiamo dei personaggi della storia, che appaiono e scompaiono alla nostra vista a seconda della loro rilevanza del momento. E per questa storia su una ricerca di senso, questo è tutto.
La fotografia di D’Antonio raccoglie, riposiziona, evidenzia, accarezza. Vittorio Storaro, che si definisce (giustamente) “autore della fotografia”, dice che il suo lavoro è “scrivere con la luce”.
E D’Antonio, che è stata allieva di un maestro della “scrittura nel buio” come Luca Bigazzi, calligrafa usando come pennelli le lame di fuoco di un camino, rende il decadimento fisico caravaggesco, e contraddice le pietose bugie che “Umberto” racconta a se stesso e agli altri restituendo loro realtà, perché sa anche essere dura, ma senza mai perdere la tenerezza.
È nato prima Umberto Contarello o Paolo Sorrentino? Il primo classe '58, il secondo '70, l'anagrafe non dà accesso a dubbi, ma il cinema? Contarello esordisce al tavolo di sceneggiatura con Marrakech Express nel 1989, Sorrentino sei anni più tardi si battezza nel cortometraggio Un paradiso. Lungi da derubricare siffatti illustri cineasti a uovo e gallina, la precedenza temporale, se non dirimente, [...] Vai alla recensione »
Un grande sceneggiatore in decadenza. Un rapporto rugginoso con la figlia preadolescente, uno d'ironica complicità col maggiordomo, un figlio sconosciuto e ritrovato, una suora lavavetri da ammirare alla finestra di fronte, vecchi amori di ritorno, un produttore da riconquistare, script da vendere "con turning point" obbligato. Il complesso edipico (subito e trasmesso) da rinfacciare e sciogliere. Vai alla recensione »